Non mi capita spesso di raccontare tutti i particolari del mio arrivo in Italia ma in una delle mie ultime visite a Cordoba ho saputo, e mi ha commosso tanto, che una mia insegnante di chimica del liceo ogni primo giorno dell’anno racconta la mia storia ai suoi allievi per incoraggiarli.
Di solito in Italia mi chiedono “da quanto manchi?”. Superati i dieci anni iniziano a dirti tutti “uh! Allora!” e cambiano discorso. I primi anni invece mi facevano tante domande perché pensavano io potessi aver bisogno di qualcosa o perché mi vedevano molto giovane.
Ora sono passati 22 anni ed il mio rapporto con la nostalgia di casa è cambiato, sono cambiata molto io, guardo indietro la mia vita con un sorriso finalmente leggero e devo dire che, in considerazione di tutte le prove che ho superato, non posso che sentirmi una privilegiata.
A quei tempi era passato in classe della mia insegnate di canto, a Cordoba, un tenore sudamericano in carriera. Lo ricordo borioso e disinvolto. Parlava con la mia maestra dei suoi viaggi e le sue presentazioni in Europa e ad un certo punto nominò un tale Arrigo Pola, che raccontava essere stato Maestro di Luciano Pavarotti.
Io ho debuttato in teatro molto presto: avevo vent’anni e studiavo canto lirico da due. Qualcuno aveva detto, visto la mia velocità di apprendimento e le doti che dimostravo, che per perfezionarmi avrei dovuto trasferirmi subito in Europa.
Io vivevo a Cordoba con mia nonna e la nostra vita era molto semplice, soprattutto se la si confronta alla vita di un ragazzo europeo oggi. Per noi non esistevano viaggi, vacanze o ristoranti; tante volte verso la fine del mese cenavamo solo mate e “pan con picadillo” perché ognuna diceva all’altra di non avere fame, e questo era uno dei tanti esempi d’amore tra nipote a nonna, infinito. Io mi vergognavo di vedere che mia nonna spendeva la sua pensione per me dunque mi applicavo il doppio: studiavo medicina tanto da non dover ripetere mai un esame, frequentavo il conservatorio tre pomeriggi a settimana e insegnavo canto nei tempi liberi.
Avevo iscritto in Conservatorio anche mio fratello ed era una maniera di condividere qualcosa insieme e di vederlo, visto che non abitavamo assieme.
Mi piaceva cantare e lo facevo da sempre e nonostante la mia voce fosse ancora “incolta” ero riuscita ad ottenere un premio a tredici anni un concorso in Radio Nazionale come cantautrice e ad esibirmi in programmi tv per bambini. Tutto da sola. Da sola facevo le code per i casting, da sola facevo e disfacevo le mie canzoni, da sola andavo in bus fino ad Arguello (un quartiere che si trova a parecchi chilometri della capitale) e facevo lezione a ragazzi con problemi motori, esperienza edificante che oltre a darmi qualche soldino, mi faceva sentire utile.
Ed è così che in Argentina imparai il valore delle cose materiali e a prendermi cura di tutto quello che avevo.
Mia nonna a volte mi dava una banconota di 5 pesos per l’eventuale coca cola in caso avessi abbassamenti di pressione per la mia talassemia ma io non la spendevo quasi mai.
Le possibilità di arrivare in Europa sembravano, se non remote, lontanissime per me.
E’ stato difficile andare da mio padre e dirgli che avrei sospeso gli studi di Medicina e, ancora di più, convincerlo a lasciarmi andare via dall’Argentina. Andare dove? Con quali garanzie? Senza conoscere nessuno? Impossibile.
Ero tenace già all’epoca e portai mio padre al Consolato italiano. Prendemmo gli elenchi telefonici e cercammo tutti i Pola esistenti. Li chiamammo tutti fino a trovare quello giusto.
Il Maestro Arrigo Pola parlava un po’ di spagnolo e gli spiegammo che avrei voluto farmi sentire da lui.
“Me la mandi!” disse a mio padre.
Con il mio primo cachet, quello dell’Elisir d’amore del 1997 e che avevo conservato, comperai la valigia più grande che trovai. Era il mio primo passo verso il mio sogno impossibile.
Pochi mesi dopo mi chiamarono a fare Sogno di una notte di mezza estate, di Mendelsohn, nello stesso teatro, sempre a Cordoba, e mi comprai un registratore a cassetta perché altra cosa fondamentale sarebbe stata poter registrare le lezioni di Arrigo Pola, qualora fossi riuscita a conoscerlo.
La mia insegnante doveva fare un viaggio a Madrid e combinammo di fare la prima tratta insieme, dopodiché avrei proseguito da sola.
(Sarò riconoscente a mio padre tutta la vita, perché è stato un sacrificio grande anche per lui quel biglietto aereo, per noi assai costoso).
Un nostro parente ci diede il contatto di uno zio che lui ricordava vivesse vicino a Roma. Quando mio padre spiegava il motivo per cui stavo andando in Italia doveva ripeterlo due volte perché la gente rimaneva spiazzata.
La mia audizione con Arrigo Pola era fissata il giorno 28 dicembre 1998.
Al mio arrivo ero confusa perché per me era tutto nuovo: la lingua, le dimensioni della loro residenza, la quantità di pacchi di regalo che vedevo sotto l’albero, l’eleganza di mia zia, gli addobbi… Una ricchezza che no avevo mai visto prima e che mi metteva in soggezione. Non sapevo esistesse il sapone liquido per la doccia e non vedendo la saponetta, ero andata a comperare una perché ero timida anche nel chiedere ogni minima cosa. Non sapevo l’italiano dunque vedevo tutte bottigliette che non distinguevo tra loro.
Passai quel primo Natale europeo con gli zii ed i nuovi cugini.
Mancava dunque solo fissare l’orario della mia audizione ed il giorno 26 di dicembre chiamai il Maestro Pola e presi nota anche dell’indirizzo preciso.
Non ricordo dettagli del viaggio, ricordo solo dei panini col tonno e pomodorini e che ero vestita diversa da tutti. Non avevo bei maglioni, il mio pantalone era ampio e grande e di un colore marrone scuro, sgraziato. Avevo una camicetta bianca lucida che a Cordoba sembrava carina. Il piumino invece era enorme e turchese. Mi vergognavo ma non avevo altri vestiti.
Arrivammo sotto casa di Pola e suonai il campanello! Ogni secondo sembrava interminabile. Mi rispose sua moglie Margherita, donna amorevolissima, e dopo consultarsi con lui mi disse che il Maestro mi aspettava di mattino e che ormai non poteva ricevermi. Evidentemente avevo capito male l’orario.
Mi veniva da piangere e non me ne facevo una ragione. Attraversai la strada e aspettai…
Si fece buio, avevo perso la cognizione del tempo ma non potevo andarmene. Il giorno dopo avevo l’aereo per l’Argentina.
Come facevo a spiegare la fatica che avevo fatto per arrivare sotto casa sua? Non potevo andarmene.
Dopo un po’ vedo che si apre la finestra da un piano più in alto.
-Ma, cosa fa ancora qui?
-Signora, io domani ritorno in Argentina e se il Maestro non mi ascolta oggi non potrò tornare più.
Mi aprirono la porta ed il Maestro mi ascoltò.
Ricordo l’onda dei suoi capelli bianchi sulla fronte, la sua mano grande e aperta mentre mi spiegava che secondo lui io avevo quelle cinque cose che non potevano mancare ad un cantante lirico!
-Maestro, come faccio a spiegare a mio padre che Lei mi prende nella sua scuola?
-Gli parlo io!
Quel capodanno a Cordoba, con tutti chiedendomi a casa come fosse l’Italia, è stato senza dubbio uno dei più belli della mia vita.
I miei zii di Latina non potevano aiutarmi più ma il destino sembrava essere dalla mia parte perché mio padre, che aveva iniziato a frequentare il comitato italiano, aveva conosciuto un signore che aveva casualmente una sorella a Modena. La signora abitava da sola e avrebbe potuto ricevermi!
Ogni tanto adesso, quando ci sediamo con mio padre a tavola lui mi ricorda il nostro saluto in aeroporto. Lui si sentiva come se la vita gli strappasse dal corpo un organo vitale. Non avevo trascorso tutta la mia infanzia e la mia adolescenza con lui, ma ero sua figlia e me ne stavo andando verso l’ignoto. Nessun cellulare, nessun computer, nessuna certezza.
Non fu facile vivere a Modena i primi anni, ma l’entusiasmo di poter finalmente studiare con il Maestro di Pavarotti faceva sì che fare la badante, le pulizie, la tata della nipote e tutto quello che servisse in casa loro, pesasse di meno. Non percepivo stipendio ma avevo un posto letto.
Una volta alla settimana sentivo i miei al telefono e li raccontavo che le lezioni con il Maestro Pola erano bellissime.
Mio fratello Mariano mi aveva registrato alcune sonate di Schubert suonate da lui al pianoforte ed io appoggiavo il mangiacassette portatile al mio petto quando di notte avevo paura.
Sapevo che dovevo resistere e che pian piano avrei imparato a parlare, a vestirmi, a pronunciare bene l’italiano, a domare i miei ricci castani e a diventare elegante anche io.
Meno di un anno dopo ero già a Tokyo ed in molte altre città giapponesi con un altro suo pupillo, una persona con cui oggi ho tutt’ora un legame bellissimo.
Avevo raggiunto il mio sogno. Avevo ricostruito il ponte verso quella terra che mia nonna aveva lasciato alle spalle per salire in nave.
Arrigo Pola è mancato pochi mesi dopo, ma aveva fatto in tempo a mostrarmi la sua dolcezza. Arrigo Pola era quello che portava le pagnotte di pane appena sfornato con dentro bigliettini d’amore alla sua fidanzata, quella che poi diventò sua moglie e compagna di tutta la vita. Era quello che mi faceva l’occhiolino quando non mi faceva pagare qualche lezione, perché leggeva nei miei occhi la gratitudine grande che provavo.
La mia storia è una di tante e avrei aneddoti da passare notti intere scrivendo, ma la cosa fondamentale e che vorrei tramandare è questa: credo fervidamente che i sogni ed i desideri nelle persone non dovrebbero mancare mai, malgrado qualsiasi avversità. Forse quelle avversità si rivelano preziose e ad un passo di mille risorse.
Non possiamo rinunciare ai nostri sogni perché finirebbe la vita. Non la permanenza, la vita!