In uno dei suoi libri, Peter Brook racconta un episodio straordinario: un regista sudafricano, creatore di un movimento del Teatro Nero nelle cittadine del Sud Africa, gli aveva riferito di essere rimasto colpito da una sua opera precedente “Lo spazio vuoto”.
Brook non capiva cosa avesse potuto trovare di utile in quel libro ambientato a Parigi, Londra, New York. Fondamentalmente nelle cittadine sudafricane non esisteva un solo edificio adibito a Teatro.
Prese il regista e gli chiese “ come mai il mio libro vi è stato di grande aiuto?”. Lui gli rispose “la prima frase!”
Posso prendere un qualsiasi spazio vuoto e chiamarlo palcoscenico vuoto. Un uomo attraversa questo spazio vuoto mentre qualcuno lo guarda, e questo è tutto ciò di cui ho bisogno perché si inizi un atto teatrale.
Dagli inizi degli anni settanta, gli allievi di entrambi i maestri furono portati a recitare nelle strade sudafricane, negli ospedali, nei caffè, nelle antiche rovine di Persepoli, villaggi, caserme, ecc.
Per molti di loro, abituati ai riflettori e all’invisibilità del pubblico, fu uno shock.
Bruce Myers, che all’epoca eseguiva uno dei corsi disse “ ho passato dieci anni nel teatro professionale senza mai vedere le persone cui mi rivolgo. D’un tratto le posso vedere… Un anno fa la sensazione di nudità mi avrebbe dato il panico”
Io non vengo dal Sudafrica ma tutti “i Sud” in alcune cose si somigliano. Anche da noi non ci sono tante realtà teatrali come quelle europee: abbiamo quelle che inventiamo di volta in volta perché le vogliamo, perché ci servono (!) e perché semplicemente ci piace fare teatro!
Oggi, tanti dei ragazzi che ho seguito e che hanno studiato con me negli ultimi anni, sono impegnati in diversi spettacoli, del tutto dignitosi. Fanno un mese di prove e si preparano come se si trattasse della piccola Scala. Tutto questo è meraviglioso e sono sicura che molti di loro non hanno nemmeno letto tanti saggi di Brook.
Cito questi argomenti che riguardano vecchie mie letture, perché riflettevo a quanto fosse interessante riprovare l’emozione della condivisione della musica con chi si predispone ad ascoltarci. Ogni volta ed in qualunque contesto ci troviamo, possiamo essere gli artefici di un momento speciale.
In luoghi non predisposti all’opera lirica, senza elementi di scena, senza le luci e senza il tappeto dell’orchestra, è dieci volte più difficile costruire e dare credibilità a un personaggio ma… Tante volte sono proprio quei contesti le prove più dure per un artista (forse non un mestierante, ma un artista sensibile e che ama la propria professione sì).
A questo aspetto si riferiva Myers quando parlava di nudità.
Siamo da soli con in mano un compito enorme. Spesso troviamo persone che non avendo mai frequentato il teatro, vengono rapiti per la prima volta da quella scintilla, quella fiammella che se si accende, conferisce a quel momento una dimensione che trascende tutto: noi stessi, la musica e quello che sappiamo della vita.
Ogni parola, anche la più innocente, è stata scritta per qualche motivo e una volta chiamata in causa è lì che attende tra il campo magnetico che interpelliamo, ed un filo. L’energia che liberiamo non potrà essere altro che il distillato, concentrato, di tutto ciò che abbiamo costruito in fase di preparazione più quello che siamo diventati nel corso della vita. Magari mi chiederete perché? Che importanza ha chi siamo davvero se in realtà stiamo solo recitando?
Molta! Perché anche nella finzione, è la nostra verità che lavora.
Siccome questa scintilla che alcuni chiamano “angelo”, “diamond”, “magia”, deve rimanere accesa ed essere presente in ogni singolo secondo, più dispersivi sono gli ambienti, più si nota la differenza tra un professionista e non.
Io ho avuto Maestri straordinari; uno di loro e forse il migliore, Lorenzo Arruga.
Davanti a lui e appena arrivata in Italia, ricordo di essere scoppiata a piangere mentre leggevo Musetta perché mi sentivo inadeguata. M’imbarazzavano sia la paura che “la paura della paura”; quel terrore di non sapere sedurre in nessun modo e di non sentirmi attraente. Mi ero preparata con dovizie di particolari alle prime audizioni, con sforzi che non si possono descrivere viste le precarietà, ma il mio senso di inadeguatezza all’Europa ed al fatto di non avere praticamente affetti vicini, non avevano retto la nudità che la musica, quando viene fatta sul serio impone.
Adoro poter ricordare quelle lezioni di musica e di vita. Adoro che siano esistite!
Lavorando con lui ho capito che con la musica e per la musica non avrei accettato mai compromessi. L’incontro con la verità, la mia verità artistica, aveva aperto il mio cuore per sempre.
Magari le sale di studio e le stanze dei conservatori diventassero “Teatro fuori dal Teatro” più spesso! Quelli veri, quelli da cui poi non si può tornare indietro, anche a costo di cambiare frequenza e disconoscere alcuni degli attuali meccanismi del mestiere che nulla hanno a ché vedere con l’arte che abbiamo scelto di coltivare.
L’emozione che trasmettevano i grandi, quelli di grande caratura, hanno radici profonde e più profonde sono le radici, più sono gli strati di cui un artista si spoglia per donarci un mondo di sfumature, misteri e rivelazioni.
Come diceva Brook “Il teatro si occupa della vita. E’ il solo punto di partenza, l’unico veramente fondamentale. Il teatro è la vita”… Fuori o dentro dal Teatro!