Le vene aperte ci sono anche nel Tango

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In questi pomeriggi di pioggia piemontesi, fare un giro a piedi nel centro storico dei paesini è stupendo; sembra che le macchine si muovano in silenzio e che quel tenue rumore arrivi da lontano perché vanno piano. Gli ombrelli riempiono di colori le strade, gli angoli dei bar e gli ambulatori (!). Il verde degli alberi che costeggiano i viali, senza il sole diventa austero.

Certe città del Nord Italia mettono soggezione d’inverno, soprattutto a una straniera come me.

Mi piace anche il profumo che emana l’asfalto quando piove, e mi piacciono le coppiette di anziani che a piccoli passi attraversano il cuore cittadino mano nella mano. Tutto rallenta nei piccoli paesi fuori dall’orario del mercato, ed il tempo sembrerebbe davvero dilatarsi.

Io rifletto sulla scaletta dei programmi da fare nei prossimi mesi e tutte queste riflessioni si confondono con le voci dei bambini che escono da scuola.

Questa tranquillità ha un valore enorme per me; qui in Europa posso camminare tranquilla senza aver paura. In Argentina, qualcosa di semplice come una passeggiata, da sola non la potrei fare.

A forza di andare a ripescare nel baule dei ricordi tanti aneddoti, ho maturato alcune riflessioni che vorrei condividere con voi.

Nel mese di Novembre ci saranno due date dedicate completamente al repertorio latinoamericano, tra cui il Tango.

Pensare, dopo lunghi anni di esercizi e virtuosismi vocali, che il Tango o la Milonga siano più facili da interpretare rispetto all’opera lirica è un errore. Per me sono doppiamente difficile da interpretare perché conosco bene cosa sia la nostalgia e non la posso tradire.

Il Tango è fulmineo, e tutto deve essere “detto” in tre o quattro minuti di musica.

In un poema che avevo scritto anni fa e che successivamente formò parte di un mio spettacolo a Milano, lo avevo descritto in tante brevi metafore tra cui queste: “…il tango è il segreto di una rosa nascosta sotto la pioggia e la durata di un ballo per conquistare una donna…”

Cosa significava per me quel frammento?

Significava e significa che non si può dire tutto in un Tango ma lo si deve far intuire. Significa che ci vuole mistero e l’ostinata capacità di crearlo proprio mentre l’anima si spoglia, e dopo aver creato anche un colore nella voce diverso da qualunque altro tu abbia mai usato nella vita, devi essere anche capace di esprimere l’amore come qualcosa di fatale e di definitivo. Questo non può essere espresso dalle labbra di una persona che si sta affacciando alla vita! Per cantare il Tango devi indossare negli occhi e nella gola, le viscere di chi ha più volte perso tutto.

Solo così vive l’amore in un tango; solo così puoi dargli vita.

In Europa più volte ho sentito dire che oramai il Tango si balla e si canta bene dappertutto, ma mai come quando lo fa un argentino! E nonostante invece ci siano interpreti stranieri meravigliosi, sono d’accordo sul fatto che sia estremamente difficile tramandare un patrimonio così particolare e che non possa essere scisso dalla storia che lo precede. Ed ecco qui che arrivo al punto su cui m’interessa riflettere: puoi raccontare una storia ma non la puoi vivere al posto di un altro.

Nel Tango ci sono tanti vocaboli di origine italiana ma anche quelli più ricorrenti come lagrimon, percal, copa, barrio, pebeta, azar, corazon, locura, soledad y adios (e potrei citarne centinaia), suonano diversi in un contesto storico come il nostro, perché vi assicuro che non è la stessa cosa nascere dalla parte giusta (?) che dalla parte meno privilegiata del globo.

Lo dice la storia -quella vera e quella romanzata-, lo dice il nostro DNA, lo dicono i ricordi che noi abbiamo dell’infanzia, lo dice il ballo degli africani – secolarmente maltrattati- che hanno dato origine successivamente alla milonga e lo dicono chiaramente anche oggi le statistiche di mercato. Non è lo stesso nascere a Buenos Aires o a Tucuman, che a Rotterdam, nonostante oggi questa città alberghi una delle scuole di Bandoneon più rinomate al mondo.

Noi siamo cresciuti sapendo che le ore di lavoro dei nostri connazionali non avranno mai lo stesso valore delle ore di lavoro di un operaio ad Amburgo, in Olanda o in Francia. Noi apparteniamo ai paesi poveri ed esportiamo povertà ai paesi più ricchi da quando abbiamo memoria. La loro ricchezza aumenta e aumenta proporzionalmente anche la nostra povertà.

Erano poveri anche i nostri nonni arrivati in America! I più “idonei” fisicamente, venivano trattenuti al Nord, quelli “scartati” scendevano dal Messico in giù.

Potrete anche voi dedurre che il Tango sia nato in una condizione “non felice” o quanto meno ostile. A quei tempi, per tanti immigrati italiani, salutare le loro famiglie a Genova equivaleva a “morire” per loro. Da quell’urlo disperato sono rimaste frasi forti come “se non ti vedo più, felice morte”.

Quando la gente ci chiede e giustamente “ma perché siete sempre così nostalgici e da dove viene una musica così triste?”, è complicato riassumerlo brevemente. Ho scelto questo argomento per chiarire, dal punto di vista d’interprete che ha vissuto nei due mondi, alcune cose che potrebbero risultarvi interessanti.

Trovo importante parlare di tutto quello che sta accadendo nel mondo oggi. Si fanno tante campagne di sensibilizzazione ma nulla sembra bastare.

Siccome questo genere musicale è figlio anche del fenomeno dell’immigrazione, in virtù di tutto quello che stiamo vivendo in termini di violenza e discriminazione, vedo dei collegamenti su cui fare luce.

Questo articolo è semplicemente una riflessione. Sono solo una cantante sudamericana che ne ha viste di tutti i colori lungo questi vent’anni in Europa.

Ogni volta che abbracciate una donna in un Tango, state abbracciando un dolore vero, una ferita che l’Argentina ha e che ancora sanguina. State abbracciando un pezzo di storia attraverso la testimonianza di tanta gente sola che componeva, suonava, cantava, mentre s’inventava una vita perché aveva diritto ad averne una.

Io ogni volta che sento un Tango in qualunque parte del mondo mi emoziono e sento che il mio paese, oggi depredato e saccheggiato di tutte le cose belle e di valore che aveva, ha un motivo ancora per essere rivalutato nel mondo, e non solo discriminato come altri paesi latinoamericani. Non cambia la nostra situazione attuale e non risolleva la nostra moneta, ma è come una goccia di rugiada che riconosceresti anche senza bisogno del tatto. Non siamo più padroni nemmeno della nostra carne: lo stesso pezzo di vitello che esportiamo, vale cinque volte di più in qualunque città Europea, ( fatti simili accadono anche in Brasile, che non ha nemmeno la licenza di produrre il proprio caffè solubile in patria senza essere accusato di commercio “sleale”, e basterebbe fare un ripasso delle diverse e interminabili crisi che hanno sempre attraversato i paesi latinoamericani come Colombia, Nicaragua, Guatemala, per evidenziare altre ingiustizie).

Insomma, il Tango è anche immigrazione, è la musica che tanti dei vostri avi sono andati a creare con noi dall’altro lato del mondo.

Mia nonna, prima di imbarcarsi, viveva in Calabria in una modesta casa col tetto in alluminio, ma quando anni dopo, girava il patio di casa sua a Cordoba, ballando appesa a mio nonno, sembrava una principessa.

In preda alla demenza senile non ricordava più nessuno, ma ci sorprese una volta dicendo di voler cantare. Stranamente non scelse una canzone italiana, ma uno dei vals più belli del repertorio argentino : “La pulpera de Santa Lucia”.

L’arte per fortuna non si cura di tanti confini e ci avvicina, l’arte mi permette oggi di essere qui e di avere uno stimolo per non indietreggiare mai e per cercare cose nuove da proporvi.

Ogni tanto mi sentirete cantare il Tango, e mai come in questo caso ed in questo periodo storico, spero vivamente di essere all’altezza di continuare a tramandare quello che conta.